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il Cerchio e la Shoah

 

“sto come un testimone

della sorte comune,

sopravvissuta a quel

tempo e quel luogo”

ANNA ACHMATOVA

 

Artista come demiurgo, rifacitore, alla fine di ogni storia, dalla sabbia fine, informe, indistinta di presenze, di evocazioni attraverso metamorfosi discrete, allusive, quasi apparizioni colte in un attimo, fermate sulla pellicola della coscienza in eterna ambigua oscillazione tra sparizione e mutamento, tra astrazione e leggibile figura. Giorgio Sorel è dunque un maestro della metamorfosi, un alchimista che allude più che raccontare, rimanda ad altro in una liquidità di ricordi, in atmosfere gassose, in campiture che sono schermi e proiezioni di una fermentazione in atto, misteriosa, continua, da cui scaturiscono volti, immagini che hanno l’incorporea evidenza, l’inconsistente saldezza dei sogni. La sabbia delle spiagge dei mondi che usa Sorel e che fissa sulla tela “come un automa” –come egli stesso afferma- è l’estremo prodotto di una trasformazione, di una lenta ed oscura metamorfosi che ha annullato le montagne, polverizzato le rocce, sminuzzato minerali e relitti, oltre ogni altra vita, oltre ogni ulteriore evento: pura e purificatrice, anonima e molteplice, memore dell’acqua e del fuoco di cui conserva la liquidità e il potere abrasivo, facile da penetrare e plastico,materno utero per forme che vi aderiscono avvolgendole, eppure, come nel caso delle opere di Sorel, capace di rigenerazione, di ulteriore trasformazione. La sabbia come materia prima primordiale della creazione e non a caso da lui scaturiscono volti senza spessore, senza solidità. La materia più frammentata, frantumata, polverizzata diventa per alchimia visiva e onirica un volto, un corpo, una testimonianza de tempo e della storia, senza inoltrarsi nella metafisica, senza perdersi nella foresta del simbolismo, mescolando e rimescolando materia, trasformandola, ma senza uscire da essa, né farne altro, senza disperderla nell’ambiguità del soggettivo.

 

“La materia è il mio obbiettivo,

che è dignità dell’uomo,

pescata nel grigio e nel crudo nero.

Polvere che diventa sotto la tua mano

un ricamo o un volto.”

 

Scrive Sorel. E dalla materia è un materializzarsi, letteralmente di volti, di emozioni, di espressioni umane, di sensazioni che lievitano impastate nella stessa materia, impronte di moti dell’anima, apparizioni appassionate gravide di sensazioni.Nella langue dell’arte Sorel crea parole dure e precise, squadrate e lievi, scaglie e frammenti, lacerti di un rispecchiamento tra piani segreti che fanno spuntare tracce  dell’animo in una spazialità senza punti cardinali, in un tempo eternamente sospeso, congelato in un infinito presente. Occorrono ore perché di nuovo la fragile tela che sabbia, metalli, resine, fusioni di cera, pigmenti hanno consolidato e trasformato di nuovo divenga polvere, in un silenzio inerte lontano dall’uomo e dal suo sguardo, che ora queste forme sorprende e umanizza, dando loro un’anima. Ed è quella di Sorel un’arte dello spaesamento, dell’alterità  e dell’estraneità che solo il nostro occhio emozionandosi sa far vibrare con emozioni, con empatie, con rimandi, con allusioni e assonanze. E’ un’arte del ricordo, della memoria, che evoca e rimanda, per questo ancor più incisiva e drammatica, ancor più tesa che non la semplice figurazione, che non il realismo, che non l’astrazione funambolica che rischia di cadere nel decorativismo stucchevole. E’ un’arte del silenzio, del raccoglimento, nella quale il vuoto si dilata ed insieme si aggruma, in ectoplasmi che hanno le tracce impresse da emozioni, da eventi, da storie così uniche e irriducibili da sentirne l’urlo senza voce, da riconoscerne le stigmate, le ferite, veroniche di un calvario totale, esistenziale, sindone di trapassi irrisolti. E’ per questo che l’arte di Sorel è soprattutto testimonianza. Sorel non è un visionario, non esprime un mondo allucinato, non è un negromante del reale, è un lucido, asciutto testimone che guarda e partecipa con tutto sé stesso, nella completezza della sua umanità, fatta di ragione ed empatia, attestando quello a cui ha assistito, perpetuandolo nel tempo, oltre la visione, quasi rendendola per sempre presente. E c’è come un urgenza del testimoniare, un trattenere l’immagine per quanto deforme, precaria, pronta ad essere riassorbita nel magma del vuoto informe, gassoso e liquido intorno. Per quanto essa appaia “per speculum in aenigmate”, come in uno specchio, tuttavia conserva ancora tanta emozione da coinvolgere e sconvolgere. “Il bisogno di raccontare agli ‘altri’, di fare gli ‘altri’ partecipi” – ha scritto Primo Levi in Se questo è un uomo – “aveva assunto tra noi, prima della liberazione e dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con gli altri bisogni elementari”. Ed è inevitabile per Sorel raccontare la Shoah, il dramma orribile, indicibile dell’annientamento di un popolo, l’incommensurabile tragedia che sembra riassumerle tutte, sussumere ogni olocausto. Ed il “cerchio”che la racchiude è quella forma chiusa che impedisce al pensiero di allontanarsene, che rende il ricordo compulsivo e il bisogno di testimoniare urgente, indilazionabile, oltre e al di là di ogni particolare, di ogni precisazione, di ogni minuzia, per raccogliere le tracce  dei volti divenuti cenere, le loro urla, le loro sofferenze, per sempre galleggianti sulla sabbia di quarzo, in una sintesi esistenziale che l’arte rende oggettiva, attualizzata più dalla storia, più dei documenti che gli aguzzini cercarono di cancellare…E Sorel diventa così il “testimone morale”, la cui figura è descritta magistralmente da Avishai Margalit in L’etica della memoria, il Mulino, Bologna, 2006, che scrive: “Il testimone morale ha il compito speciale di svelare il male con cui entra in contatto”. L’arte di Giorgio Sorel ha questa qualità di renderlo “testimone morale” e l’empatia che mostra verso le sofferenze, togliendole dall’indifferenza, dall’indistinto e restituendo loro il nostro presente, il nostro stesso guardare e partecipare, lo fa non solo, alla latina, “testis”, ma anche “superstes” – il sopravvissuto – che del testimone era in origine un sinonimo.

 

Marzio Dall’Acqua

Presidente dell’Accademia di Belle Arti di Parma  

 







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